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sabato 29 giugno 2019

Premio Losardo 2019. La galleria fotografica

Da sinistra, Francesca Villani, Gaetano Bencivinni,
Domenico Fiordalisi e Filippo Veltri

Don Ennio Stamile e Raffaele Losardo

Don Ennio Stamile, Raffaele Losardo,
Francesca Villani e Gaetano Bencivinni

Angelo Aita

Gaetano Bencivinni

Don Ennio Stamile

Don Giacomo Panizza

Giap Parini

Mirella Molinaro

Pablo Petrasso e, sullo sfondo, Filippo Veltri
e Arcangelo Badolati

Massimo Clausi

Massimo Clausi

Filippo Veltri

Filippo Veltri e Pietro Pollichieni

Giuseppe Lombardo

Francesco Minisci

mercoledì 12 giugno 2019

La mattanza, le tenebre e il castello. Nota di Enzo Pellegrino


Un urlo teso e vibrante  è questo nuovo romanzo di Gaetano Bencivinni , soffia e travolge come vento di tempesta.
Detto altrimenti: è un gioco di specchi deformanti dove il macrocosmo del male, la sua ontologia, l’oscuro kakòn come lo chiamavano i Greci, si flette  e si riflette nella vita ordinaria di esseri impauriti e smarriti. E dove alcuni sono  nel contempo demoni e dannati dell’inferno che hanno creato.
L’oscuro kakòn, ripreso poi dalla psicanalisi lacaniana, è la vera follia dell’uomo che rifiuta di riconoscere il male che lo abita attribuendone la causa a qualche malefica divinità, sia a  livello individuale che collettivo.
   Ricorrendo ad immagini pittoriche citerei l’urlo di Munch di una umanità ferita e senza scampo, e ancor più le illustrazioni di Goya su I disastri della guerra.
Una guerra di mafia dove la cronaca, come in un noir, è cadenzata da delitti di cui  poi s’ignoreranno, dal punto di vista giudiziario, i colpevoli.
Allora bisogna pensare ad una congiura metafisica, l’oscuro kakòn appunto, contro cui gli organi istituzionali, la Magistratura in specie, nulla possono e perciò assolvono tutti in un lavacro di coscienza. Ma di cattiva coscienza se “ i morti sono fatti reali” e il grido di dolore è implacabile.
   Nel castello dove arriva il professore folle, vero protagonista del romanzo, l’incantesimo si rompe immantinente perché l’eternità, cioè il paradiso, non si compra con una lacrimuccia ma con un pianto di pietra e di sangue.  
Già, perché “il capo sorregge il villaggio come la corda l’impiccato”,  mentre la corte è narcotizzata dal diavolo.
Ma perché tutto resta impunito?  Semplicemente perché è stabilito che “nessuno può toccare Caino benché abbia ucciso il fratello”.
Il male è così assoluto che, come in una cupola rovesciata, persino Lucifero si ribella: “Non dobbiamo più fare patti con gli uomini” dice.
   L’armamentario culturale di Gaetano Bencivinni, in questo come nel precedente romanzo A chi la tocca la tocca,  è  alto e suggestivo, senz’altro conseguente e coerente  alla sua attività professionale (docente d’italiano) e al ruolo di presidente del “Laboratorio Giovanni Losardo”, il sindaco assassinato dalla mafia.
 Sicuramente s’avverte l’eco di  Dostoevskij, quello del sottosuolo e dei demoni, e l’intrigo di Kafka ( Il Castello, Il Processo) ma anche di Sciascia, impareggiabile nel raccontare la mafia. E poi i riferimenti storici: la notte della strage di San Bartolomeo, la porta del sangue nell’eccidio dei valdesi in Guardia Piemontese.
E come in Kafka il piano della fabula, sebbene demoniaca, lascia sospesa la trama  che si tinge di sangue rappreso perché, direbbe Theodor Adorno,  raccontare è sempre una dissacrazione del silenzio, fosse pure soltanto un foro nella cappa di piombo dell’omertà.
   Il racconto scaturisce dal  più grave delitto mai prima consumato contro la Bellezza: il furto della Natività del Caravaggio ad opera della mafia palermitana.
Ed è evidente qui il doppio simbolismo: la violenza  è furto di vita e  morte per la bellezza, come l’angosciante urlo di Munch continua ad ammonire.
L’immagine di copertina  de La Mattanza è opera potente ed evocativa del maestro Marcello Ciampa, e coglie appieno l’atmosfera inquietante della narrazione, con quello sguardo di sbieco che allude ad altre catastrofi e quell’orecchio abnorme teso sul mugugno del mondo.

martedì 11 giugno 2019

In memoria di Giannino Losardo


A Cetraro ci fu storia prima e ce ne sarà dopo l’assassinio di Giannino Losardo, ma nessuno potrà confondere l’una con l’altra perché quell’efferato delitto di mafia fu spartiacque, cesura  e ferita  nel corpo vivo della comunità.
Una ferita che a distanza di anni continua a bruciare perché i colpevoli non furono mai trovati, come altre volte poi accadrà nella guerra di mafia del martoriato Sud e nella stessa Cetraro. Il caso irrisolto dell’assassinio di Angelo Vassallo, sindaco pescatore di Pollica, ne è una tragica riconferma.
  Con quell’efferato delitto un’antica comunità di tradizioni benedettine, ricca di storia e di cultura, fu travolta e sconvolta, spinta su uno strapiombo di morte.
 Alle sette di sera era già coprifuoco con “sacchi di sabbia alle finestre”, e porte sbarrate. Il tempo che in genere si misura a passo di stagioni  a quell’epoca si calcolava a ritmo di delitti.
   Come disse il PM Leonardo Rinella  al processo,  l’assassinio di Giannino Losardo avvenne in un rapporto di connivenza e complicità tra  diversi livelli.
Giannino, sindaco di Cetraro e segretario-capo del tribunale di Paola, non era un eroe ma solo un uomo delle Istituzioni che praticava e pretendeva il rispetto della legalità.
Pretesa bizzarra e inattuale sembrò ad alcuni (gli scafati, i fatalisti, gli inetti) perché,  in un contesto sociale ormai sfilacciato, la dea bendata dell’ingiustizia si ergeva ad idolo in un coro di connivenza e omertà.
Alcuni pensarono, illudendosi, di trarre beneficio e protezione dalla tirannia mafiosa che stava instaurandosi.
Giannino aveva capito tutto, forse sapeva troppo per il doppio ruolo che svolgeva, amministratore a Cetraro e segretario-capo nella Procura di Paola, e voleva infrangere l’ordito di quella trama infernale, e perciò la mafia  gli tappò la bocca in una notte d’estate.
 Quel delitto non fu una nota a piè di pagina nella strategia ‘ndranghetista ma una mossa fondamentale nell’ingabbiare il territorio nella morsa della paura.   
Lo Stato, sì  proprio lo Stato, nella sua veste più importante, la magistratura  appunto, sembrò abdicare al ruolo di protezione e  giustizia se è vero, come è vero,  che quell’assassinio e tanti altri restarono impuniti.

   La memoria ora mi trasporta in quella stanza d’ospedale,   nell’attimo in cui ho visto  e sentito Giannino, colpito al cuore,  respirare affannosamente; e rivedo i volti dei suoi cari – la moglie Rosina , i giovanissimi figli Angela e Raffaele –  contratti dal dolore ma con la speranza accesa negli occhi: si salverà, forse salverà la vita con un miracoloso intervento chirurgico.  Così non fu, inesorabile arrivò la morte.
L’acqua tetra dello Stige sommerse la comunità che sembrò annegare nello sconforto, nello smarrimento, nella paura. 

Poi, con uno scatto d’orgoglio,  in pochi cominciarono ad organizzarsi per difendere la memoria  di Giannino e la dignità di un paese.
Punto di riferimento il compianto senatore Francesco Martorelli, già impegnato in Parlamento in qualità di vice-presidente della commissione antimafia.
Venne  Enrico Berlinguer ai funerali, e una marea di gente; seguirono altre manifestazioni  con don  Riboldi, il vescovo anticamorra, e tutti gli studenti in piazza a rivendicare futuro per questa terra bella e dannata. 
La comunità, o parte di essa, non si rassegnò alla consunzione come un osso di seppia prosciugato. E Giannino fu  il simbolo della rinascita. Anzi “è il simbolo”, perché dell’eroe non si può dire che è “accaduto” ma  che tutto accade nel momento in cui si ricorda. Come  per Falcone e Borsellino e tanti altri.
  
   La Resistenza prima e, in seguito la faticosa Rinascita della “polis”, si caratterizzano ora attraverso  segnali evidenti e qualificanti.
-Anzitutto in memoria di Giannino fu istituito, a cadenza annuale, un premio internazionale antimafia organizzato con sapiente regia da  “Il laboratorio Losardo”.
Tra i premiati risultano il prof. Nando dalla Chiesa, il prof. Gianni Vattimo, i procuratori antimafia  Cafiero De Raho e Gratteri , don Ciotti e tante altre personalità impegnate nella cultura e nella lotta alla mafia.

 -Amministratori lungimiranti (sì, capita anche questo nel derelitto Sud) s’impegnarono, oltre che a difendere la memoria di Giannino, in opere pubbliche di risanamento del tessuto urbanistico  e nei servizi sociali. Il bellissimo lungomare è un esempio eloquente di come una zona “degradata”  possa essere restituita alla sua originaria bellezza. E inoltre la tradizione benedettina, il restauro delle opere, il museo dei Brettii , unico nel suo genere in Calabria,  sono lì a testimoniare che la cultura è “portatrice sana” di riscatto e  sviluppo.
- La Scuola, l’Istituto Silvio Lopiano, vero fiore all’occhiello dell’istruzione dell’intero comprensorio, ha svolto e svolge un ruolo fondamentale per l’educazione delle nuove generazioni. All’avanguardia nella ricerca e nella sperimentazione, e senza trascurare la tradizione classica, ultimamente è stato insignito del premio per la legalità da parte del Presidente della Repubblica.
- La Chiesa, con preti di strada e d’intelletto, e in collaborazione con Libera, presidio importante di socialità e legalità in una forma di associazionismo non solo ricreativo ma anche solidale  e operativo a più livelli.
- La Pro-Loco Civitas Citrarii che, nei momenti di bufera in cui tutto sembrava travolto dall’onda funesta, ha saputo tener viva la memoria salvaguardando le  tradizioni e recuperando “scomparti” di storia. 

   Ma con tutto questo il paese è salvo? No, direi di non indulgere in facile ottimismo. Troppi sono i problemi che incombono, e che qui mi risparmio dall’elencare.  Uno più che altro mi preme ed è il futuro, il futuro dei giovani, il loro ruolo nel contesto sociale, anzitutto il lavoro per impedire la fuga forzosa delle intelligenze vive.

Giannino non fu solo baluardo di legalità, ma anche segno d’appartenenza e di speranza. Non tradiamo il suo messaggio, accogliamolo con i versi di Omero come auspicio: Itaca è in riva al mare, in quell’ombra dove nasce Aurora.

Enzo Pellegrino