Translate

Recensioni e Opinioni


Recensioni: 

Sette paia di scarpe
 Premessa.
    La presentazione di un libro, per quanto semplice possa sembrare, è, a mio avviso, un’operazione di una delicatezza estrema, specialmente quando chi l’ha scritto, ti sta davanti, tende l’orecchio, ti fulmina magari con uno sguardo veloce, in attesa di capire se hai capito veramente ciò che pensava scrivendo.
Ancora più delicato il compito, quando sai che il libro è passato con dieci e lode al vaglio di una commissione di esperti che gli ha assegnato un premio di altissimo prestigio come La Giara. E’ un compito assolutamente non facile, dinanzi al quale avverto i miei limiti, perché rischio di non interpretare, in maniera adeguata, sensazioni, emozioni, sentimenti e messaggi che l’autrice ha inteso comunicare.  
Ma è un rischio che devi correre quando un amico come Mario Novello, una vita vissuta appassionatamente e intensamente in Rai, da alcuni anni, prestigioso animatore, come vice Presidente, di questo Centro Sociale, ti offre il privilegio e il piacere di farlo, per onorare una scrittrice che rappresenta autorevolmente, con le sue ricerche e i suoi scritti, la nostra Calabria.
Eliana Iorfida, infatti, è un’esploratrice che ha scavato nei luoghi-chiave in cui sono sepolti preziosi reperti delle antiche civiltà, ma che sa scavare ancora più a fondo, direi con una maggiore carica di sensibilità e una grande capacità di penetrazione, nei tesori nascosti dell’animo umano.
Cercherò di entrare nel merito con circospezione, in punta di piedi, con la riverenza che si deve quando si entra nel tempio sacro del Pensiero, filtrato attraverso le pagine di un libro.

Titolo e circostanza.
Sette paia di scarpe è un lavoro affascinante, che avvince e tiene desta l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine, nell’ansia di conoscere ciò che accadrà dopo, quando passerai l’indice a sfogliare la pagina successiva. E frattanto ti attardi a gustare le piacevoli sensazioni suscitate dalla pagina che hai davanti, o torni addirittura indietro, a rituffarti nel caleidoscopio d’immagini che l’autrice ha fatto  scorrere, attualizzate, davanti a te.
Sette paia di scarpe è un romanzo da leggere sino all’ultimo rigo, fin nella postfazione e persino nei ringraziamenti, perché ogni frase, ogni parola e ogni sillaba contribuisce a definire il quadro un po’ fantastico e un po’ reale che Eliana dipinge, con  la magia che è propria del tocco femminile; dove luoghi, personaggi, situazioni, emozioni, sensazioni, scorrono con la nitidezza di un film a tre dimensioni e ad alta definizione.
Abbiamo il piacere di ospitare, questa sera, durante questo storico evento che ha unito, in gemellaggio, il Centro Sociale Anziani di Cetraro e Rai senior, una studiosa nostra conterranea, che è nata e vive a Serra San Bruno, a due passi da noi, da dove collabora con l’Università calabrese e scrive per i più importanti settori della stampa nazionale.
Il suo lavoro di archeologa, l’ha portata a esplorare, oltre che in Israele e in Egitto, in zone sconosciute della lontana Siria, oggi teatro di atrocità, dove ha conosciuto usi e costumi che, per molti versi, essa assimila a certe pratiche del Mediterraneo e persino del nostro meridione.
Sette paia di scarpe, è il titolo che Eliana ha preso in prestito da un’antica fiaba cui ha attinto anche il poeta Giosuè Carducci in “Davanti San Guido”. Ricorderete tutti la bella strofa che recita: “Sette paia di scarpe ho consumate/ di tutto ferro per te ritrovare:/sette verghe di ferro ho logorate/ per appoggiarmi nel fatale andare…”
Direi che anche ciascuno di noi può riconoscere, nello stesso titolo, il proprio andare della nostra esistenza, con passo alterno, scarpe chiodate e talora anche senza scarpe, verso lidi lontani, dov’è la conoscenza del Vero che tutti inseguiamo, nel mistero affascinante e spietato della vita e della morte. 
   
La trama.
Sette paia di scarpe, prende avvio da uno degli episodi di guerra che scandiscono la turbolenza del nostro tempo sull’intero pianeta ed evoca tristemente l’esodo tragico delle popolazioni che lasciano in fondo al Tirreno innocenze di bimbi e speranze, nel tentativo di raggiungere un fazzoletto di terra su cui esistere e sfamarsi, al sicuro dalla violenza degli uomini e dal fragore delle armi.
Il romanzo, ambientato in un’area di lingua araba, è costellato di frequenti espressioni, esclamazioni e nomi di quella lingua e questo, all’inizio, mi ha un po’ spaventato; vi assicuro, però, che presto sono tornato a mio agio avendole un po’ assimilate e, per il resto interpretate, deducendole di volta in volta, dal contesto letterario. Confesso anzi, che ho finito per familiarizzare e ho anche appreso un po’ di arabo…
 Ho imparato, ad esempio che “Alham- dulillah” significa lode ad Allah, “salat al-maghrib” preghiera del tramonto e “layla sa’ida” buonanotte.
Lo scenario evolve da Beirut nel 2006, dove vive Imad, vedovo, con i suoi tre figli: Aidha, la più grande che fa da mammina, Nashat e Tahir i fratelli minori, al tempo in cui sta per scatenarsi l’offensiva israeliana contro gli hezbollah libanesi. Imad, il padre, deve assolutamente rimanere sul posto ma per mettere in salvo i suoi figli li manda in un villaggio della Siria, dove la defunta moglie Asiya, un tempo tra le più belle ragazze di quel luogo, era nata e che ora costituisce un enigma vivente per i figli che non conoscono le sua radici. 
I tre sono accompagnati all’aereo che li porterà ad Aleppo e da lì continueranno il loro viaggio verso Umm Ar-rabiah, nel profondo nord est della Siria, dove sono accolti dai nonni materni, dagli zii e dai cugini. Il villaggio si trova alle falde del Tell, la collina misteriosa dove gli archeologi scavano, sin dal 1983, per ritrovare i tesori di una civiltà sepolta, insieme ai suoi misteri ancestrali, testimoniati da un antico cimitero situato ai suoi piedi. 

L’ambiente.
In quel posto tutta la vicenda si sviluppa, si snoda e si conclude, in un clima rigorosamente patriarcale che diventa matriarcale quando il patriarca non c’è più. La religione che vi domina è, naturalmente, quella islamica, dove si sente la presenza dell’Imam e del muezzin che dall’alto del minareto chiama a raccolta, cinque volte al giorno, i fedeli per pregare Allah Misericordioso.
Una Siria dove, come dice l’autrice, le tensioni si tagliano col coltello, ma dove le varie comunità riescono a mantenere i contorni pacifici della reciproca convivenza. Dove, per non frazionare le proprietà, le unioni avvengono fra cugini, dando luogo a figli storpi, destinati a una vita di sofferenza. Dove il rapporto di parentela ha un limite: dove il figlio di tuo figlio è tuo figlio, ma il figlio di tua figlia è un estraneo.
Dove si dorme all’aperto, su baldacchini che devono molto somigliare a certi pagliai che i nostri contadini costruiscono per dormire sul posto di lavoro. Un villaggio dove ruoli e distanze tra uomini e donne sono rigorosamente definiti. Dove la protagonista Aidha, tra mille ostacoli e difficoltà, si dedica a raccogliere sempre nuovi tasselli per ricostruire un puzzle che le interessa e la tormenta. Dove essa vuole scandagliare nei trascorsi della mamma che da quel posto è fuggita e ricucire, come dice la stessa scrittrice, “l’arazzo sfilacciato della sua famiglia”.  Un posto dove la sepoltura avviene rigorosamente su di un fianco, con la testa rivolta alla Mecca. Dove il lutto dura quattro mesi e dieci giorni.

Le analogie.
Nessuna meraviglia, come giustamente Eliana osserva nella sua bella postfazione, per le analogie che si riscontrano negli usi e costumi del nostro Meridione che rivelano l’appartenenza a un’unica grande cultura mediterranea che è parte di lei e di noi.  “Un sud primordiale e attualissimo, -essa scrive con parole ispirate- ospitale e integralista, speziato e spietato, religioso e superstizioso, raffinato e sgargiante, opulento e affamato.”
Nessuna meraviglia, se consideriamo che tutto il mondo è paese e certe situazioni evocano alla nostra mente, cerimoniali non estranei alla nostra stessa cultura. Come il lutto che in quel villaggio dura sei mesi e dieci giorni, assimilabile a quello che noi cetraresi chiamiamo “ ’u luttu strittu” che le nostre nonne usavano testimoniare col nero dell’abito portato per anni, sino all’usura, e le imposte di casa serrate per settimane.
 Come “u cuonzulu”, che ancora a Cetraro si porta, in certi strati della popolazione, rispettosa delle buone tradizioni, ai parenti dell’amico defunto. E’ un rito che troviamo attuale in quel villaggio siriano, quando viene servito con piatti fumanti e primizie dell’orto, allorchè muore il vecchio Abu Taleb, alla moglie Um Taleb e ai suoi familiari.
E similmente accade, durante le nostre cerimonie funerarie, che crocchie di partecipanti si abbandonino, confessiamolo, a sommessi pettegolezzi che nulla hanno a che vedere col povero defunto.
Anche Um Taleb, la matriarca siriana è assimilabile, lasciatemi passare un riferimento personale, alla figura di “Mamma Bice”, vedova con ben otto figli da allevare e sfamare, di cui ho narrato in questi giorni sulle colonne di Cetraro in Rete, e che molti di voi hanno avuto la bontà di leggere sul quel sito.
In quel villaggio troviamo persino la “lisciva”,  “ ‘a lissia” che persone di giovinezza avanzata come me, ricorderanno come il bucato di cenere, che i nostri genitori usavano fare o commissionare, in difetto dei detersivi moderni.
Anche il burqa, con il quale le donne siriane usano nascondere capelli e parte del volto, evoca il vecchio fazzoletto delle nonne che ne indossavano uno simile, quando, coprendone il viso, lasciavano liberi solamente gli occhi, giusto per non inciampare, e recavano, a notte, nei vicoli del paese o, da una casolare all’altro, un piatto caldo ai poveri del vicinato.
Un nugolo di personaggi su cui si eleva finalmente la figura di Karima Um Bassan, unica amica della defunta madre di Aiyda, depositaria dei segreti che la protagonista si appresta a sciogliere per giungere finalmente all’ambita verità.
 Karima, personaggio che Aiyda assimila a Fatima, la sua amica fedele, lasciata in Libano, dove la protagonista e i suoi fratelli, infine torneranno vicino al padre, alla fine del conflitto israelo- libanese.
  Questa, in estrema sintesi, è SETTE PAIA DI SCARPE: la narrazione integrale, la soluzione dell’enigma e i dettagli v’invito a gustarli leggendo l’elegante volume in edizione cartonata, edito dalla RAI.
                                                                                                                                              Luigi Leporini

Cloud Atlas

Ho visto, solo qualche giorno fa, il film Cloud Atlas (in italiano L'Atlante delle nuvole) tratto dall'omonimo libro di David Mitchell.
Avevo letto il libro da qualche anno e raramente un film riproduce tanto fedelmente il pensiero di uno scrittore.
Il libro è una visione del passato, del presente e del futuro, una rappresentazione ampia delle caratteristiche dell'uomo attraverso i secoli che si snoda nel raccontare le vicende di sei personaggi la cui vita è ambientata in epoche diversissime. Quello che caratterizza il racconto è l'ideale di libertà, di amore e di giustizia ma anche di violenza ingiustificata e di sete di potere sempre insito negli uomini di qualsiasi epoca. Vi troviamo anche la religione e la superstizione e la "cometa" sulla pelle di tutti e sei i personaggi rappresenta la continuità delle storie in una serie di connessioni che raffigurano meglio di altro il pensiero dello scrittore. Vi sono anche denunce sociali e spunti di ironia e di comicità che spesso fanno sorridere. Nel leggerlo quello che a prima vista potrebbe sembrare solo frammentazione  del racconto è in realtà solo un mezzo per rendere consapevole il lettore dell'esistenza perenne nell'uomo di volontà di una vita diversa da quella vissuta. Sono convinta che anche l'impianto del libro, a volte spregiudicato, potrebbe piacere ai giovani per la loro voglia di nuovo mentre può piacere a lettori più grandi per il richiamo ad una vita diversa da quella quotidiana.

Elisabetta Pelaia

La grande Bellezza

L’uscita del film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, è stata accompagnata da discussioni e polemiche, acuite nel momento in cui il film, graditissimo agli Americani, è stato proposto per l’Oscar al  migliore film straniero.
Gli Americani, si è detto, hanno amato non il film in se stesso ma gli scorci bellissimi di Roma di notte, le sue opere d’arte, i  suoi palazzi, le sue fontane che sanno di storia che viene da lontano.
Il regista, si è detto, ha presentato il peggio della società romana. Ha presentato una società futile, assuefatta alla droga ed al dolce far niente. Assonnata, dormiente, nonostante il frastuono della musica ed il ritmo frenetico  dei balli di gruppo cui si abbandona. Una società tutta ripiegata su se stessa .
La bellezza è fuggita da Roma. Lo dicono le prime scene del film. Il titolo e le prime immagini suggeriscono questa chiave di lettura.
La grande bellezza  è fuggita da Roma. Per questo il protagonista, Geppo Gambaradella , non riesce a scrivere il suo secondo romanzo, dopo il grande successo del primo, “bello e feroce come il modo degli uomini”, come afferma suor Maria, la Santa, in visita Roma e ospite del protagonista ad una cena nella sua bellissima casa che si affaccia sul Colosseo.
 Non può scrivere un romanzo sul niente, come afferma egli stesso.
Geppo  è preso dalla vita vuota della Roma bene, ma non ne è prigioniero. E’ un uomo in ricerca. Lo dicono il suo percorrere le strade di Roma di notte per assaporarne il fascino, il suo sguardo che si posa affettuoso sui giochi dei bimbi, su una suora che gusta un frutto appena raccolto da un albero …
Tu non sei nessuno. Questo la coscienza che il protagonista  ha di sé.
 “Siamo tutti sull’orlo della disperazione e dobbiamo guardarci con affetto”, dice ad una amica spocchiosa e tanto sicura di sé. Questa la coscienza che il protagonista  ha delle persone che gli stanno accanto.
Geppo non si ripiega su se stesso e trova se stesso fuori delle acque di Narciso. E’ in ricerca.
 Infine  comprende che  la grande bellezza non esiste. Esistono sparuti sprazzi di bellezza che bisogna saper cogliere.  Solo allora può dare inizio al suo secondo romanzo.
Questa è solo una chiave di lettura del film. Ma il regista lascia qua e là segni di segni  perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione , per dirla con Umberto Eco.
Frasi e scene seminate qua e là che suggeriscono diversi temi, che generano nuove e diverse interpretazioni.
Il tema della decadenza dell’Ovest, l’importanza  delle radici, il tema della povertà nella Chiesa, raccontata, non vissuta, la bellezza di una vita semplice fatta di propinquità , la poliedricità della persona, una eppure sempre diversa, l’amicizia che è tale, quando  l’amico fa emergere il bambino che è in te.
Il film  è racconto e talvolta poesia e come tale genera letture sempre diverse. Tante letture quanti sono i lettori. Questo il fascino di ogni racconto. Questo il fascino di La grande bellezza che è racconto e poesia.

Rosa Randazzo

Nessun commento :

Posta un commento