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mercoledì 12 giugno 2019

La mattanza, le tenebre e il castello. Nota di Enzo Pellegrino


Un urlo teso e vibrante  è questo nuovo romanzo di Gaetano Bencivinni , soffia e travolge come vento di tempesta.
Detto altrimenti: è un gioco di specchi deformanti dove il macrocosmo del male, la sua ontologia, l’oscuro kakòn come lo chiamavano i Greci, si flette  e si riflette nella vita ordinaria di esseri impauriti e smarriti. E dove alcuni sono  nel contempo demoni e dannati dell’inferno che hanno creato.
L’oscuro kakòn, ripreso poi dalla psicanalisi lacaniana, è la vera follia dell’uomo che rifiuta di riconoscere il male che lo abita attribuendone la causa a qualche malefica divinità, sia a  livello individuale che collettivo.
   Ricorrendo ad immagini pittoriche citerei l’urlo di Munch di una umanità ferita e senza scampo, e ancor più le illustrazioni di Goya su I disastri della guerra.
Una guerra di mafia dove la cronaca, come in un noir, è cadenzata da delitti di cui  poi s’ignoreranno, dal punto di vista giudiziario, i colpevoli.
Allora bisogna pensare ad una congiura metafisica, l’oscuro kakòn appunto, contro cui gli organi istituzionali, la Magistratura in specie, nulla possono e perciò assolvono tutti in un lavacro di coscienza. Ma di cattiva coscienza se “ i morti sono fatti reali” e il grido di dolore è implacabile.
   Nel castello dove arriva il professore folle, vero protagonista del romanzo, l’incantesimo si rompe immantinente perché l’eternità, cioè il paradiso, non si compra con una lacrimuccia ma con un pianto di pietra e di sangue.  
Già, perché “il capo sorregge il villaggio come la corda l’impiccato”,  mentre la corte è narcotizzata dal diavolo.
Ma perché tutto resta impunito?  Semplicemente perché è stabilito che “nessuno può toccare Caino benché abbia ucciso il fratello”.
Il male è così assoluto che, come in una cupola rovesciata, persino Lucifero si ribella: “Non dobbiamo più fare patti con gli uomini” dice.
   L’armamentario culturale di Gaetano Bencivinni, in questo come nel precedente romanzo A chi la tocca la tocca,  è  alto e suggestivo, senz’altro conseguente e coerente  alla sua attività professionale (docente d’italiano) e al ruolo di presidente del “Laboratorio Giovanni Losardo”, il sindaco assassinato dalla mafia.
 Sicuramente s’avverte l’eco di  Dostoevskij, quello del sottosuolo e dei demoni, e l’intrigo di Kafka ( Il Castello, Il Processo) ma anche di Sciascia, impareggiabile nel raccontare la mafia. E poi i riferimenti storici: la notte della strage di San Bartolomeo, la porta del sangue nell’eccidio dei valdesi in Guardia Piemontese.
E come in Kafka il piano della fabula, sebbene demoniaca, lascia sospesa la trama  che si tinge di sangue rappreso perché, direbbe Theodor Adorno,  raccontare è sempre una dissacrazione del silenzio, fosse pure soltanto un foro nella cappa di piombo dell’omertà.
   Il racconto scaturisce dal  più grave delitto mai prima consumato contro la Bellezza: il furto della Natività del Caravaggio ad opera della mafia palermitana.
Ed è evidente qui il doppio simbolismo: la violenza  è furto di vita e  morte per la bellezza, come l’angosciante urlo di Munch continua ad ammonire.
L’immagine di copertina  de La Mattanza è opera potente ed evocativa del maestro Marcello Ciampa, e coglie appieno l’atmosfera inquietante della narrazione, con quello sguardo di sbieco che allude ad altre catastrofi e quell’orecchio abnorme teso sul mugugno del mondo.

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