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domenica 26 gennaio 2014

La lingua è una nave in mezzo al mare


“La lingua è una nave in mezzo al mare e non più in cantiere”.  Luigi Leporini nel suo ultimo volume “Cose nostre” ha fissato un momento di questo vagare, prima che la nave  si disperda nel grande mare della vita che scorre inesorabile e si trasforma e cambia ormai così velocemente in questo nostro mondo globalizzato che non sai più per certo ciò che è tuo e ti appartiene e ciò che è d’altri e comincia solo ora ad appartenerti.
Il linguaggio, che la vita esprime e  la vita racconta, è variabile, mobile,  si salda pertanto ad una ricerca umana più totale.
L’autore  ha raccolto indovinelli, modi dire, canzoni, proverbi, preghiere  nati forse a Cetraro e forse no, forse arrivati da altri porti e da altri lidi toccati dalla nave del linguaggio, per continuare ad usare l’efficace metafora di Ferdinand de Saussure. Molti sono infatti i detti raccolti a Cetraro  che si ritrovano in altre regioni d’Italia, pur con qualche variante. Ciascuno di noi può individuarne pochi o tanti.
Il Leporini, amante e ricercatore di “ Cose nostre” consegna agli studiosi del folklore ed a noi tutto questo, che è nostro,  che ci appartiene perché  lascia trasparire la vita di chi ci ha preceduto in questa nostra terra : sorrisi, gemiti, voci,  fatiche, paure, sogni, preghiere.
E’ una vita semplice quella che traspare con un’economia basata su agricoltura, pastorizia e sul mare.
Molti i detti che accennano al mare con i vuozzi, i scuogli, lli palummi, a varca, u pisci. Andando più a fondo  notiamo, però, che al medesimo significante ( mare) non corrisponde lo stesso significato.
Mare non ha sempre il significato di distesa di acqua salata. Questa identica distesa ha più spesso un significato metaforico, viene utilizzata per dire altro.
Viene utilizzata per dire ora l’ossequio all’abbondanza, al potere, al successo: Duv’jjè lu mari ‘u jjumi curre
 Per dire il rischio,  le difficoltà, la prova: Chi si jette a mari, ha da sapì natà; Vuogliu passà lu mari ccu ‘na canna, / ppe’ scanaglià lu cori ‘i Marianna./ Vuogliu passà lu mari ccu ‘na canuccia,/ ppe’ scanaglià lu cori ‘i Mariuccia.
Per dire distacco, separazione: Da la finestra mia vidu lu mari, /tutti li vuozzi  ji vidu venì,/  ma chill’amuri miu no vvene mai.
Per dire quiete …..
Ora  il segno mare è solo il pretesto verbale per fare rima e introduce personaggi e oggetti che non hanno nessuna attinenza col mare, ampia distesa di acqua salata: Mi l’hanu dittu ca lu mar’è d’uògliu/ jiucati a marità ca no’ tti vuògliu.
Certamente questi testi citati ci consentono di ricavare solo alcuni valori che il mare assume nella vita dei portatori  e dei fruitori di questi detti. Certamente il mare è molto di più per quei Cetraresi che di mare hanno vissuto e vivono.
Noi cogliamo solo alcuni significati di questi detti come delle altre tradizioni orali arrivate sino a noi e amorevolmente trascritte dall’autore. Certamente noi possiamo talvolta fare solo ipotesi sul contesto in cui i detti sono nati, come pure sul livello di comprensione che ne hanno avuto i fruitori nel tempo.
Un detto che l’autore inserisce tra i proverbi in particolare mi ha colpito: U Diu di l’animali è l’omu. Ad esso io attribuisco un’origine biblica. Origine che certamente era nota ai produttori ed ai fruitori del tempo e del luogo in cui il proverbio è nato. Certamente essi avevano dimestichezza con i testi biblici e sapevano dell’importanza  della ‘parola’ e del ‘ dare il nome’ nella cultura ebraica e nel testo della Genesi.
I fruitori, nel tempo,  ne hanno compreso a fondo il senso e l’origine?
L’uomo è il dio degli animali perché Dio gli ha consentito di dare il nome agli animali viventi, divenendone così signore e padrone. Dio ha eletto l’uomo sopra ogni altra creatura, ha chiamato lui, l’essere prediletto poiché fatto a sua immagine, a esercitare quel ruolo di predominio che, nella Bibbia, costituisce il suo compito, e, insieme, il suo destino.
 Origini ancestrali ha anche la concezione della parola non soltanto mezzo di comunicazione ma realtà cui si riconosce potere, perché agisce efficacemente sulle cose. Può risanare e distruggere, può allontanare il male e far venire il bene.
Benedica!, Fora i tutti, Signuri! Fora i cca , sono solo alcune delle espressioni “magiche” che troviamo nel nostro testo e che sentiamo pronunciare ancora oggi tanto spesso.
E’ una vita semplice quella che traspare dal testo, abbiamo detto, una vita fatta di contiguità, di sentimenti e atti semplici, di solidarietà. Basti pensare ad usanze ormai quasi scomparse o che hanno perduto il significato originario: il Sangiovani, ‘u cuònzulu,a gallina, ‘u tartiegnu, u’muccaturu.
Gustosi quadretti di vita paesana prendono vita davanti ai nostri occhi, esperienze e sogni di bambini, cui non erano ancora stati imposti bisogni posticci, come il piccolo Leporini che sognava di suonare la campana di San Nicola.

Il testo contiene tutto questo ed altre chicche tutte da scoprire e da gustare che l’autore riporta, secondo il nostro giudizio, con la penna del ricercatore appassionato né ripiegato verso il passato né interessato, come dice egli stesso nel capitolo primo, a “ mettere a confronto il vecchio e il nuovo ai fini di un giudizio di merito”.  Non è solito dare giudizi di merito il nostro autore, consapevole, forse, che “città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dei che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dei estranei. E’ vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi ” come afferma Italo Calvino parlando di Maurilia, una delle città invisibili, inserita nella raccolta “La città e la memoria”.

di Rosa Randazzo

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