“La
lingua è una nave in mezzo al mare e non più in cantiere”. Luigi Leporini nel suo ultimo volume “Cose
nostre” ha fissato un momento di questo vagare, prima che la nave si disperda nel grande mare della vita che scorre
inesorabile e si trasforma e cambia ormai così velocemente in questo nostro mondo
globalizzato che non sai più per certo ciò che è tuo e ti appartiene e ciò che
è d’altri e comincia solo ora ad appartenerti.
Il
linguaggio, che la vita esprime e la
vita racconta, è variabile, mobile, si
salda pertanto ad una ricerca umana più totale.
L’autore ha raccolto indovinelli, modi dire, canzoni,
proverbi, preghiere nati forse a Cetraro
e forse no, forse arrivati da altri porti e da altri lidi toccati dalla nave
del linguaggio, per continuare ad usare l’efficace metafora di Ferdinand de
Saussure. Molti sono infatti i detti raccolti a Cetraro che si ritrovano in altre regioni d’Italia,
pur con qualche variante. Ciascuno di noi può individuarne pochi o tanti.
Il
Leporini, amante e ricercatore di “ Cose nostre” consegna agli studiosi del
folklore ed a noi tutto questo, che è nostro,
che ci appartiene perché lascia
trasparire la vita di chi ci ha preceduto in questa nostra terra : sorrisi,
gemiti, voci, fatiche, paure, sogni,
preghiere.
E’
una vita semplice quella che traspare con un’economia basata su agricoltura,
pastorizia e sul mare.
Molti
i detti che accennano al mare con i
vuozzi, i scuogli, lli palummi, a varca, u pisci. Andando più a fondo
notiamo, però, che al medesimo significante ( mare) non corrisponde lo
stesso significato.
Mare
non ha sempre il significato di distesa di acqua salata. Questa identica
distesa ha più spesso un significato metaforico, viene utilizzata per dire
altro.
Viene
utilizzata per dire ora l’ossequio all’abbondanza, al potere, al successo: Duv’jjè lu mari ‘u jjumi curre
Per dire il rischio, le difficoltà, la prova: Chi si jette a mari, ha da sapì natà; Vuogliu passà lu mari ccu ‘na
canna, / ppe’ scanaglià lu cori ‘i Marianna./ Vuogliu passà lu mari ccu ‘na
canuccia,/ ppe’ scanaglià lu cori ‘i Mariuccia.
Per
dire distacco, separazione: Da la
finestra mia vidu lu mari, /tutti li vuozzi
ji vidu venì,/ ma chill’amuri miu
no vvene mai.
Per
dire quiete …..
Ora il segno mare è solo il pretesto verbale per
fare rima e introduce personaggi e oggetti che non hanno nessuna attinenza col
mare, ampia distesa di acqua salata: Mi
l’hanu dittu ca lu mar’è d’uògliu/ jiucati a marità ca no’ tti vuògliu.
Certamente
questi testi citati ci consentono di ricavare solo alcuni valori che il mare
assume nella vita dei portatori e dei
fruitori di questi detti. Certamente il mare è molto di più per quei Cetraresi
che di mare hanno vissuto e vivono.
Noi
cogliamo solo alcuni significati di questi detti come delle altre tradizioni
orali arrivate sino a noi e amorevolmente trascritte dall’autore. Certamente
noi possiamo talvolta fare solo ipotesi sul contesto in cui i detti sono nati,
come pure sul livello di comprensione che ne hanno avuto i fruitori nel tempo.
Un
detto che l’autore inserisce tra i proverbi in particolare mi ha colpito: U Diu di l’animali è l’omu. Ad esso io
attribuisco un’origine biblica. Origine che certamente era nota ai produttori
ed ai fruitori del tempo e del luogo in cui il proverbio è nato. Certamente essi
avevano dimestichezza con i testi biblici e sapevano dell’importanza della ‘parola’ e del ‘ dare il nome’ nella
cultura ebraica e nel testo della Genesi.
I
fruitori, nel tempo, ne hanno compreso a
fondo il senso e l’origine?
L’uomo
è il dio degli animali perché Dio gli ha consentito di dare il nome agli
animali viventi, divenendone così signore e padrone. Dio ha eletto l’uomo sopra
ogni altra creatura, ha chiamato lui, l’essere prediletto poiché fatto a sua
immagine, a esercitare quel ruolo di predominio che, nella Bibbia, costituisce
il suo compito, e, insieme, il suo destino.
Origini ancestrali ha anche la concezione
della parola non soltanto mezzo di comunicazione ma realtà cui si riconosce
potere, perché agisce efficacemente sulle cose. Può risanare e distruggere, può
allontanare il male e far venire il bene.
Benedica!, Fora i tutti, Signuri!
Fora i cca ,
sono solo alcune delle espressioni “magiche” che troviamo nel nostro testo e
che sentiamo pronunciare ancora oggi tanto spesso.
E’
una vita semplice quella che traspare dal testo, abbiamo detto, una vita fatta
di contiguità, di sentimenti e atti semplici, di solidarietà. Basti pensare ad
usanze ormai quasi scomparse o che hanno perduto il significato originario: il Sangiovani, ‘u cuònzulu, ‘a gallina, ‘u tartiegnu, u’muccaturu.
Gustosi
quadretti di vita paesana prendono vita davanti ai nostri occhi, esperienze e
sogni di bambini, cui non erano ancora stati imposti bisogni posticci, come il
piccolo Leporini che sognava di suonare la campana di San Nicola.
Il
testo contiene tutto questo ed altre chicche tutte da scoprire e da gustare che
l’autore riporta, secondo il nostro giudizio, con la penna del ricercatore
appassionato né ripiegato verso il passato né interessato, come dice egli
stesso nel capitolo primo, a “ mettere a confronto il vecchio e il nuovo ai
fini di un giudizio di merito”. Non è
solito dare giudizi di merito il nostro autore, consapevole, forse, che “città diverse
si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono
senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi
degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci e perfino i lineamenti
delle facce; ma gli dei che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono
andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dei estranei. E’ vano
chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi ” come afferma Italo
Calvino parlando di Maurilia, una delle città invisibili, inserita nella
raccolta “La città e la memoria”.
di Rosa Randazzo
di Rosa Randazzo
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