Un urlo teso e vibrante è questo nuovo romanzo di Gaetano Bencivinni
, soffia e travolge come vento di tempesta.
Detto altrimenti: è un gioco di specchi
deformanti dove il macrocosmo del male, la sua ontologia, l’oscuro kakòn come lo chiamavano i Greci, si flette e si riflette nella vita ordinaria di esseri
impauriti e smarriti. E dove alcuni sono
nel contempo demoni e dannati dell’inferno che hanno creato.
L’oscuro kakòn, ripreso poi dalla
psicanalisi lacaniana, è la vera follia dell’uomo che rifiuta di riconoscere il
male che lo abita attribuendone la causa a qualche malefica divinità, sia a livello individuale che collettivo.
Ricorrendo
ad immagini pittoriche citerei l’urlo
di Munch di una umanità ferita e senza scampo, e ancor più le illustrazioni di
Goya su I disastri della guerra.
Una guerra di mafia dove la cronaca, come in un
noir, è cadenzata da delitti di cui poi s’ignoreranno,
dal punto di vista giudiziario, i colpevoli.
Allora bisogna pensare ad una congiura
metafisica, l’oscuro kakòn appunto, contro cui gli organi istituzionali,
la Magistratura in specie, nulla possono e perciò assolvono tutti in un lavacro
di coscienza. Ma di cattiva coscienza se “ i
morti sono fatti reali” e il grido di dolore è implacabile.
Nel
castello dove arriva il professore folle, vero protagonista del romanzo,
l’incantesimo si rompe immantinente perché l’eternità, cioè il paradiso, non si
compra con una lacrimuccia ma con un pianto di pietra e di sangue.
Già, perché “il capo sorregge il villaggio come
la corda l’impiccato”, mentre la corte è
narcotizzata dal diavolo.
Ma perché tutto resta impunito? Semplicemente perché è stabilito che “nessuno
può toccare Caino benché abbia ucciso il fratello”.
Il male è così assoluto che, come in una cupola
rovesciata, persino Lucifero si ribella: “Non dobbiamo più fare patti con gli
uomini” dice.
L’armamentario culturale di Gaetano Bencivinni, in questo come nel
precedente romanzo A chi la tocca la tocca, è alto
e suggestivo, senz’altro conseguente e coerente alla sua attività professionale (docente
d’italiano) e al ruolo di presidente del “Laboratorio Giovanni Losardo”, il
sindaco assassinato dalla mafia.
Sicuramente s’avverte l’eco di Dostoevskij, quello del sottosuolo e dei
demoni, e l’intrigo di Kafka ( Il Castello, Il Processo) ma anche di Sciascia,
impareggiabile nel raccontare la mafia. E poi i riferimenti storici: la notte
della strage di San Bartolomeo, la porta del sangue nell’eccidio dei valdesi in
Guardia Piemontese.
E come in Kafka il piano della fabula, sebbene
demoniaca, lascia sospesa la trama che
si tinge di sangue rappreso perché, direbbe Theodor Adorno, raccontare è sempre una dissacrazione del silenzio, fosse pure soltanto un foro nella cappa
di piombo dell’omertà.
Il
racconto scaturisce dal più grave
delitto mai prima consumato contro la Bellezza: il furto della Natività del
Caravaggio ad opera della mafia palermitana.
Ed è evidente qui il doppio simbolismo: la
violenza è furto di vita e morte per la bellezza, come l’angosciante
urlo di Munch continua ad ammonire.
L’immagine di copertina de La Mattanza
è opera potente ed evocativa del maestro Marcello Ciampa, e coglie appieno
l’atmosfera inquietante della narrazione, con quello sguardo di sbieco che
allude ad altre catastrofi e quell’orecchio abnorme teso sul mugugno del mondo.
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