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lunedì 13 febbraio 2017
martedì 7 febbraio 2017
Intervento di Fausto Gallo a Tarsia
Sono nato nel 1936 e
sono l’ultimo di otto figli, perciò durante la mia infanzia dei miei fratelli
che partirono per la guerra avevo una vaga conoscenza, avvenuta tramite le loro
fotografie in divisa o qualche breve ritorno a casa per una licenza.
Il primo,
Francesco, nato nel 1915, arruolatosi nella questura (oggi Polizia di Stato)
dopo il corso a Firenze fu mandato ad Agrigento. Il secondo, Italino, del 1918,
militare di Marina, fu mandato in Grecia e in seguito venne deportato in
Germania. Luciano, classe 1920, militare di terra, fu imbarcato a Napoli per
l'Africa. Con il passare del tempo e l’imperversare della guerra,
perdemmo i contatti con i nostri congiunti.
Nel 1943 incominciano
i primi bombardamenti anglo-americani sulle nostre coste. Fu data l'ordinanza
di lasciare il paese e restare nelle campagne. Cetraro si svuotò perché vennero
trasferiti anche gli uffici comunali, postali e bancari. Restarono solo i
carabinieri a pattugliare il paese. Intanto arrivavano notizie di bombardamenti
su Amantea, Paola e Scalea.
La notte del 16
agosto c’era un cielo stellato ed una splendida luna. Non facemmo in tempo ad
addormentarci che si scatenò l'inferno: bombe dal cielo, cannonate dal mare.
Tra il fuggifuggi generale corremmo a ripararci, per modo di dire, sotto gli
alberi. Solo dopo aver sganciato una quantità enorme di bombe, gli aerei si
allontanarono e l'inferno cessò. Al mattino alcuni si recarono in paese
pensando di trovare solo macerie, ma con enorme con sorpresa non fu così; solo
il convento delle suore Battistine venne colpito ma riportò pochi danni.
Nei giorni successivi
seguirono altri raid, ma fortunatamente le bombe finivano in mare o sulla
spiaggia, inesplose.
Solo un ponte sulla
linea ferroviaria, nei pressi della sottostazione di Cetraro, fu danneggiato,
costringendo in quel tratto i pochi treni locali che viaggiavano ad andare a
passo d'uomo: era il cosiddetto ponte degli zingari. Per chi conosce Cetraro, è
il ponte di fronte il ristorante il Cubo, con innesto sulla superstrada. A quei
tempi invece era ad arco e vi scorreva sotto un fiumiciattolo. Si trattava
dell'ultimo tratto della fognatura a cielo aperto che si gettava a mare nelle
vicinanze. Solitamente vi si accampavano gli zingari, che barattavano attrezzi
di ferro battuto e altri oggetti e poi andavano via. Da qui il nome di “Ponte
degli Zingari”.
Con lo sbarco degli
anglo-americani in Sicilia, ad Anzio e la caduta di Montecassino arrivò
l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Fu la fine dello sfollamento. Col
passare dei giorni sulla SS18 passavano colonne di automezzi americani che
andavano verso il nord. Alcuni si fermarono a Cetraro per pochi giorni. Si
incominciava a vedere la luce dopo il buio. Intanto per le strade del paese si
vedevano forestieri, venivano chiamati gli sbandati: erano siciliani che
tornavano al Sud o napoletani che risalivano verso il nord. Bussavano ai
portoni cercando qualcosa da mangiare. Mia madre, con tre figli in guerra di
cui non si avevano notizie, cercava per quel poco che poteva, di aiutare tutti,
sperando che qualcuno di loro le desse notizie dei figli. Fortunatamente
incontrò un gruppetto diretto ad Agrigento, raccontò subito del figlio
Francesco pregando di portare nostre notizie e una lettera. Dopo un po' di
tempo arrivò la risposta di Francesco: stava bene e sperava al più presto,
treni permettendo, di tornare per una breve licenza. Nel frattempo avemmo
notizie anche di Luciano, prigioniero degli americani in Africa: raccontava che
stava bene e viveva nell'agiatezza.
Un giorno mio padre,
sul marciapiede della stazione di Paola in attesa del treno per Cetraro, notò
un bel militare americano nella sua impeccabile divisa di color kaki, con lo
stemma dello stivale sulla manica sinistra. Vide un paesano che salutava il
militare e al tempo stesso faceva segno verso di lui, che non capiva.
A quel punto il
paesano disse al militare:” Non vedi che quello è tuo padre?” Il militare si
avvicinò a mio padre dicendo:” papà sono io Luciano tuo figlio”. Non si erano
riconosciuti! Seguirono abbracci, pianti e grida di gioia.
Dopo la caduta di
Berlino avvenuta il 2 maggio 1945 e la liberazione della Germania e dal Nazismo
di Hitler, con i suoi folli orrori, i prigionieri presero con mille difficoltà
la via del rimpatrio. Ci furono i primi arrivi in paese, i treni che venivano
dal Nord non fermavano alla stazione per cui la notte al famoso ponte degli
zingari, dove i treni erano costretti a rallentare, si radunarono molte
persone, soprattutto mamme con la speranza di rivedere i figli o di averne
notizie mostrando le fotografie. Fra le mamme c'era anche la mia, accompagnata
da Graziella, un'amica di famiglia; anche lei aspettava suo figlio che sapeva
essere a Napoli. Sfiduciata e quasi senza speranza, mia madre una sera decise
di non andare al ponte.
In piena notte
sentimmo bussare al portone: era Graziella che urlava “Marietta Italino è
tornato” e alle sue urla si unirono quelle di mio fratello “mamma, mamma sono
tornato!”.
Fra pianti, urla e
abbracci si svegliò tutto il vicinato e la casa si riempì di gente. Per i
giorni a seguire ci fu un via vai di parenti, amici, conoscenti e mamme che
venivano a chiedere notizie dei figli che non erano ancora tornati.
Purtroppo alcuni non
tornarono.
Mia madre lo ripeteva
sempre che era stata fortunata: tre figli in guerra e tutti e tre tornati a
casa.
lunedì 6 febbraio 2017
Fausto Gallo testimone a I giorni della memoria a Ferramonti
Un evento culturale, particolarmente significativo ed emozionante,
si è tenuto nel campo di concentramento di Ferramonti nell’ambito de I giorni della memoria, dedicati alle
tragiche vicende che hanno visto il
genocidio di milioni di Ebrei, omosessuali, slavi, disabili.
In un contesto caratterizzato dalla partecipazione di associazioni
socio-culturali, amministratori comunali e di rappresentanti di tutte le
associazioni calabresi di anziani, si sono alternati testimonianze, interventi
e riflessioni sul senso della memoria e sulla necessità di non far cadere
l’oblio su questa pagina nera della storia.
Numerosi i soggetti istituzionali che hanno espresso compiacimento
e pieno sostegno alla manifestazione.
Tema dell’evento e titolo del progetto messo in atto da
Federanziani Calabria
Sul filo della cultura per non
perdere la memoria.
La presidente regionale Brunella Stancato ha consegnato
nell’occasione a Roberto Ameruso, sindaco di Tarsia, la sciarpa della pace
confezionata dai nonni della Calabria, simbolo
di comunione fraterna e messaggio di pace per le giovani generazioni, ha
detto la presidente.
La sciarpa della pace, composta da centinaia
mattonelle create da tante mani operose, ha detto il sindaco, può ben
essere il simbolo di Ferramonti, luogo d’incontro di tanti volti , di uomini e di
donne di diverse religioni, di varia cultura uniti da un tragico destino ma che hanno
trovato a Ferramonti l’opportunità di
una convivenza pacifica, grazie al grande senso di umanità di chi ha gestito il
campo. Umanità che è di tutte le popolazioni del Sud, ha continuato il sindaco,
e che si manifesta anche oggi nell’accoglienza di tanti fratelli che in barconi
di fortuna arrivano sulle nostre coste alla ricerca di una vita migliore,
lontani dalla guerra, dalla povertà che genera fame e da una vita vissuta
nell’insicurezza.
Significative le testimonianze rese da Fausto Gallo, presidente
del Centro Sociale Anziani di Cetraro e di Francesca Rennis legata al centro
sociale di Guardia e Acquappesa.
Gallo ha condiviso con il numeroso pubblico presente momenti
intimi della vita della sua famiglia che ha visto tre fratelli diversamente
impegnati nell’esercito e nella marina nel corso della seconda guerra mondiale.
Uno, Italino, deportato in Germania. Ha raccontato la paure per i
bombardamenti, il timore della perdita, le sofferenze patite, la gioia del
ritorno a casa dei fratelli.
Rennis ha ricordato la figura del padre che ha preferito rimanere
in Germania ai lavori forzati per ben due anni, pur di non cedere al nazifascismo
e divenire soldato della Repubblica di Salò. Prima forma di resistenza.
Queste manifestazioni sono importanti, ha detto la Rennis,
soprattutto nel mondo di oggi, in cui le giovani generazioni soffrono di
analfabetismo emotivo ed hanno perduto la percezione della realtà, immerse come
sono in un modo virtuale e in una comunicazione con l’altro mediata dalle nuove
tecnologie.
Pergamene sono state consegnate ai presidenti delle associazioni
di anziani presenti alla manifestazione. A tutti una cartolina con un messaggio
dei nonni alle giovani generazioni.
Tanti gli ospiti della manifestazione a cui la presidente Stancato ha consegnato le
mattonelle della pace. Una mattonella è stata inviata al Santo Padre, papa
Francesco, cui la presidente ha chiesto una udienza per i nonni d’Italia.
Un’altra al sindaco e ai cittadini di Tarsia che hanno ospitato la
manifestazione .
di Rosa Randazzo
Il filo della cultura per non perdere la memoria
Significativo
e pregnante il tema proposto da Federanziani Calabria in collaborazione con Senior
Italia che con il progetto Il filo della
cultura per non perdere la memoria ha
voluto tessere un doppio legame.
Un
filo che ci lega al nostro passato, a quello scrigno che contiene la cultura
materiale e simbolica di un popolo, di cui è segno la sciarpa della pace,
confezionata dai nonni della Calabria e consegnata al sindaco di Tarsia.
Un filo che ha legato tante donne dei centri sociali
anziani e filo che ci lega alle donne dei centri sociali di altre regioni.
Legami che producono comunione quindi pace.
Il
nostro patrimonio culturale va salvaguardato perché in un
mondo sempre più globalizzato, che tende ad annullare le diverse specificità, è
come una coltre avvolgente, familiare che riscalda ma non soffoca.Non corazza, entro cui rifugiarsi per sfuggire
alla relazione con l’altro, col diverso, spazio circoscritto da difendere a
tutti i costi ma base su cui costruire una nuova appartenenza in una società
eterogenea e multiculturale qual è quella che si va profilando anche nei nostri
piccoli centri.
Un filo che ci lega ad un evento tragico della
vita dell’umanità di cui il campo di concentramento di Ferramonti e soprattutto
il lager di Auschwitz sono luoghi cruciali della memoria novecentesca.
Auschwitz
poi ha rappresentato una rivoluzione nel modo del ricordare, tanto da farci recuperare il senso etimologico del termine ri- cordare. Ricordare è riportare al
cuore, è memoria e memoria è rendere
presente il passato, è sentire sulla propria pelle il dolore, lo straniamento,
la perdita della speranza, la demolizione
dell’uomo. Difficile definire i sentimenti che hanno agitato il cuore di
milioni di Ebrei, omosessuali, slavi, disabili, donne, uomini, bambini nei
campi di sterminio. Ricordare quindi per non scordare, cioè per non perdere dal
cuore.
Sono
trascorsi più di 70 anni, l’arco di una vita, per cui la generazione dei testimoni va esaurendosi. Poiché la memoria è un
dovere umano reso assoluto e imperativo, dopo gli orrori dello sterminio,sorge un interrogativo.
Chi terrà
desta nelle giovani generazioni la memoria di eventi così atroci?
Ed ecco che
interviene il filo della cultura
così come dice il titolo del progetto.
Quale cultura
della memoria? La cultura che utilizza nuovi sostegni, nuove forme e nuovi linguaggi
che fanno leva sull’immaginazione. Quindi i documenti storici, i musei, ciò che
i giovani apprendono nei libri di Storia viene arricchito dai messaggi veicolati
dai nuovi mezzi di comunicazione(film, opere teatrali, fiction …)
Il
ricordare non deve divenire , però, un rito, celebrato il quale, tutto
ritorna come prima. No, non è questo il senso del ricordo.
La memoria va coltivata
quotidianamente, nelle scuole con percorsi didattici attivi tutto l'anno,
costruiti insieme ai soggetti presenti sul territorio, a partire dai musei e
dalle istituzioni culturali, va coltivata nella vita di tutti i giorni.
Dice Levi in Se
questo è un uomo, stando in casa, andando per via/
coricandovi, alzandovi.
La memoria è scomoda.
Comporta una assunzione di responsabilità.
Levi, sopravvissuto ai
lager nazisti, nel suo libro I sommersi e
i salvati mette in guardia dal fare della memoria un semplice ricordo. Egli,chimico
di professione, diviene scrittore per necessità. La necessità e l’urgenza di
testimoniare perché non accada più ciò
che è accaduto.
Se è accaduto, afferma
Levi, può accadere ancora. Si può ripeter in forme diverse.
Certamente sarà difficile
che si verifichino simultaneamente tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma ci sono segni precursori
che bisogna imparare a cogliere: la violenza,la paura del diverso, dello
straniero, il razzismo.
Quando sorge un nuovo istrione,
un incantatore , un trascinatore di folle, che teorizza questi fattori,
li legalizza e dichiara la violenza necessaria, tutto quel che è accaduto si
può ripetere.
Noi sappiamo che è già accaduto in Argentina, nell’ex
Iugoslavia, in Burundi, in Ruanda.
Allora ecco il ruolo della
cultura, degli intellettuali. La cultura deve essere la sentinella che nel buio
della notte discerne i segnali di una follia collettiva e accende la fiaccola
dello spirito critico, dello studio, della riflessione, del confronto
razionale. Certamente il letterato deve basare il suo agire nella società
sull’etica dell’accoglienza,
dell’inclusione, su valori universali come la pace, la non violenza , sul
valore della diversità.
di Rosa Randazzo
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