Sono nato nel 1936 e
sono l’ultimo di otto figli, perciò durante la mia infanzia dei miei fratelli
che partirono per la guerra avevo una vaga conoscenza, avvenuta tramite le loro
fotografie in divisa o qualche breve ritorno a casa per una licenza.
Il primo,
Francesco, nato nel 1915, arruolatosi nella questura (oggi Polizia di Stato)
dopo il corso a Firenze fu mandato ad Agrigento. Il secondo, Italino, del 1918,
militare di Marina, fu mandato in Grecia e in seguito venne deportato in
Germania. Luciano, classe 1920, militare di terra, fu imbarcato a Napoli per
l'Africa. Con il passare del tempo e l’imperversare della guerra,
perdemmo i contatti con i nostri congiunti.
Nel 1943 incominciano
i primi bombardamenti anglo-americani sulle nostre coste. Fu data l'ordinanza
di lasciare il paese e restare nelle campagne. Cetraro si svuotò perché vennero
trasferiti anche gli uffici comunali, postali e bancari. Restarono solo i
carabinieri a pattugliare il paese. Intanto arrivavano notizie di bombardamenti
su Amantea, Paola e Scalea.
La notte del 16
agosto c’era un cielo stellato ed una splendida luna. Non facemmo in tempo ad
addormentarci che si scatenò l'inferno: bombe dal cielo, cannonate dal mare.
Tra il fuggifuggi generale corremmo a ripararci, per modo di dire, sotto gli
alberi. Solo dopo aver sganciato una quantità enorme di bombe, gli aerei si
allontanarono e l'inferno cessò. Al mattino alcuni si recarono in paese
pensando di trovare solo macerie, ma con enorme con sorpresa non fu così; solo
il convento delle suore Battistine venne colpito ma riportò pochi danni.
Nei giorni successivi
seguirono altri raid, ma fortunatamente le bombe finivano in mare o sulla
spiaggia, inesplose.
Solo un ponte sulla
linea ferroviaria, nei pressi della sottostazione di Cetraro, fu danneggiato,
costringendo in quel tratto i pochi treni locali che viaggiavano ad andare a
passo d'uomo: era il cosiddetto ponte degli zingari. Per chi conosce Cetraro, è
il ponte di fronte il ristorante il Cubo, con innesto sulla superstrada. A quei
tempi invece era ad arco e vi scorreva sotto un fiumiciattolo. Si trattava
dell'ultimo tratto della fognatura a cielo aperto che si gettava a mare nelle
vicinanze. Solitamente vi si accampavano gli zingari, che barattavano attrezzi
di ferro battuto e altri oggetti e poi andavano via. Da qui il nome di “Ponte
degli Zingari”.
Con lo sbarco degli
anglo-americani in Sicilia, ad Anzio e la caduta di Montecassino arrivò
l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Fu la fine dello sfollamento. Col
passare dei giorni sulla SS18 passavano colonne di automezzi americani che
andavano verso il nord. Alcuni si fermarono a Cetraro per pochi giorni. Si
incominciava a vedere la luce dopo il buio. Intanto per le strade del paese si
vedevano forestieri, venivano chiamati gli sbandati: erano siciliani che
tornavano al Sud o napoletani che risalivano verso il nord. Bussavano ai
portoni cercando qualcosa da mangiare. Mia madre, con tre figli in guerra di
cui non si avevano notizie, cercava per quel poco che poteva, di aiutare tutti,
sperando che qualcuno di loro le desse notizie dei figli. Fortunatamente
incontrò un gruppetto diretto ad Agrigento, raccontò subito del figlio
Francesco pregando di portare nostre notizie e una lettera. Dopo un po' di
tempo arrivò la risposta di Francesco: stava bene e sperava al più presto,
treni permettendo, di tornare per una breve licenza. Nel frattempo avemmo
notizie anche di Luciano, prigioniero degli americani in Africa: raccontava che
stava bene e viveva nell'agiatezza.
Un giorno mio padre,
sul marciapiede della stazione di Paola in attesa del treno per Cetraro, notò
un bel militare americano nella sua impeccabile divisa di color kaki, con lo
stemma dello stivale sulla manica sinistra. Vide un paesano che salutava il
militare e al tempo stesso faceva segno verso di lui, che non capiva.
A quel punto il
paesano disse al militare:” Non vedi che quello è tuo padre?” Il militare si
avvicinò a mio padre dicendo:” papà sono io Luciano tuo figlio”. Non si erano
riconosciuti! Seguirono abbracci, pianti e grida di gioia.
Dopo la caduta di
Berlino avvenuta il 2 maggio 1945 e la liberazione della Germania e dal Nazismo
di Hitler, con i suoi folli orrori, i prigionieri presero con mille difficoltà
la via del rimpatrio. Ci furono i primi arrivi in paese, i treni che venivano
dal Nord non fermavano alla stazione per cui la notte al famoso ponte degli
zingari, dove i treni erano costretti a rallentare, si radunarono molte
persone, soprattutto mamme con la speranza di rivedere i figli o di averne
notizie mostrando le fotografie. Fra le mamme c'era anche la mia, accompagnata
da Graziella, un'amica di famiglia; anche lei aspettava suo figlio che sapeva
essere a Napoli. Sfiduciata e quasi senza speranza, mia madre una sera decise
di non andare al ponte.
In piena notte
sentimmo bussare al portone: era Graziella che urlava “Marietta Italino è
tornato” e alle sue urla si unirono quelle di mio fratello “mamma, mamma sono
tornato!”.
Fra pianti, urla e
abbracci si svegliò tutto il vicinato e la casa si riempì di gente. Per i
giorni a seguire ci fu un via vai di parenti, amici, conoscenti e mamme che
venivano a chiedere notizie dei figli che non erano ancora tornati.
Purtroppo alcuni non
tornarono.
Mia madre lo ripeteva
sempre che era stata fortunata: tre figli in guerra e tutti e tre tornati a
casa.
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