Detto
in parole povere significa semplicemente strada lastricata in pietra silicea[1],
acciottolato. Niente di più banale.
Ma
se vogliamo in qualche misura approfondire il senso della parola, magari
mettendoci dentro un po’ di sentimento, ci rendiamo conto che, in realtà, si
tratta di qualcosa di molto più poetico e complesso.
Io
la rivivo come l’ho vissuta nella lontana infanzia quando abitavo in via Regina
Elena n. 44 dove sono nato; quando la percorrevo da cima a fondo,
ripetutamente, a tutte le ore del giorno e della notte, a passo più o meno spedito o addirittura correndo come quando
giocavamo a guardia e ladri; quando
questa via era appunto una ‘nzilica con il fondo lastricato di
pietra.
Erano
pietre di varia forma, colore e grandezza, martoriate dalle zampe ferrate dei
muli provenienti dalla campagna e levigate dai passi nudi dei marinai che,
salendo dalla porta ‘i mare, le
calpestavano nelle loro quotidiane fatiche di pescivendoli e ricattere[2].
Erano
adagiate l’una accanto all’altra con modulazioni diverse ma sempre in modo che
tra l’una e l’altra ci fosse quasi la stessa distanza, senza creare
vuoti che potessero costituire pericolo per il passante: un vero e proprio
ricamo dei nostri maestri d’arte.
Un
ricamo simile a quello che i nostri ingegnosi contadini hanno lasciato scolpito
in certi muretti di pietra a secco[3]
di cui è ancora disseminata la nostra campagna, che hanno resistito
magnificamente alle intemperie dei secoli e ai terremoti ma non sempre all’opera
sciagurata degli uomini che li stanno sostituendo con dei prosaici e ignobili
blocchi di cemento.
Ma
torniamo alla nostra ‘nzilica che di
tanto in tanto, data la forte pendenza, non inferiore a un buon venti per
cento, era intervallata da un gradino non più alto di una normale pietra come
quella del lastricato: un vero e proprio mosaico di sassi che assumeva e
conserva, ai miei occhi, dimensione e dignità di arte della pietra e del selciato.
Anche
le pendenze laterali risultavano studiate e calibrate in maniera particolare:
avevano un movimento dolcemente degradante al centro perché l’acqua scorresse
appunto nel settore centrale, consentendo ai passanti di salire e scendere, nei
giorni di pioggia, senza bagnarsi oltre l’indispensabile, dalle parti laterali:
un vero e proprio gioiello d’ingegneria idraulica per i tempi che allora
correvano.
E
correvano tempi in cui, vi assicuro, pioveva molto e faceva molto più freddo di
quanto oggi non accada a distanza di tante primavere, anzi di tante stagioni
invernali. Non saprei dire se fosse questa una sensazione determinata dalla modestia
dell’abbigliamento di allora e dal fatto che si camminava solo e sempre a piedi
o se ciò configurasse una situazione reale del clima non ancora contaminato dai
fumi delle automobili, delle industrie, dei termosifoni e di quant’altro la
civiltà successiva ci ha riservato.
Fatto
sta che quando pioveva, la nostra ‘nzilica
diventava un vero e proprio spettacolo perché produceva il caratteristico
fenomeno della cosiddetta travunara.
Già…la
travunara, particolare musicalità dell’acqua
che grondava abbondante dalle tegole dei palazzi dirimpettai e da quella che,
scorrendo lungo i gradini, ripulendo a fondo la via, faceva un autentico,
caratteristico effetto cascata. E tra un gradino e l’altro, lee e gli
interstizi, fungendo rispettivamente come da tasti bianchi e neri su di un
pianoforte ideale, arricchivano lo spartito di una melodia che non è dato descrivere.
Questo
e altro era una ‘nzilica quando la
smania delle strade ad ogni costo rotabili, anche quelle più strette e tortuose
dei vicoli belli del mio paese, non era ancora intervenuta a cancellare, con
l’asfalto e il cemento, la sua armonia.
Sono
tornato in via Regina Elena numero 44: che tristezza!.. Quello che nei miei
ricordi era un quartiere dagli spazi immensi, l’ho trovato incredibilmente
rimpicciolito e ridimensionato dalle vicende umane e dagli anni.
Tanta
gente, troppa gente è andata via, fuggita dalla miseria e dall’abbandono, dopo
aver lasciato la Rupe e i vicoli Frischera testimoni silenziosi della
loro storia leggendaria. Il bel portone di casa in legno massiccio dipinto di
blu è stato divelto e sostituito da un moderno e gelido portone in alluminio.
Chissà se esiste ancora, all’interno, la bella soffitta coperta di tegole, nella
quale mamma infornava il pane, dove si cucinava, si pranzava, si sognava e
nella quale stendevo, di notte, le mie composizioni! Addio casa dei miei natali
e dei miei sogni.
Addio
‘nzilica della mia infanzia. La mia ‘nzilica non c’è più.
Luigi Leporini
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