E’ consuetudine fatale degli uomini cantare le lodi dei loro
simili quando ormai non ci sono più. Allora si dice ogni bene di loro: che in
vita sono stati dei galantuomini esemplari, buoni, rispettosi, caritatevoli,
generosi, onesti, portatori delle quattro virtù cardinali e delle tre virtù
teologali.
Voglio, per una volta, andare
controcorrente e cantare le lodi di una nobildonna viva e vegeta, una volta
molto nota, ma adesso poco conosciuta e considerata in paese: donna Lisetta.
Sono andato a farle visita recentemente più
volte, insieme a mia moglie, nella sua annosa casa materna. Sul frontespizio,
accanto al portone d’ingresso, è ancora visibile un antico affresco,
raffigurante la Pietà, sbiadito dalle intemperie e dagli anni. Donna Lisetta mi
dirà che una volta l’ha fatto restaurare e che, ancora oggi, molte coppie di
sposi, dopo la cerimonia nuziale, vengono lì a farsi fotografare.
Lei mi attende dietro i vetri del
balcone: mi scorge, scompare, corre ad aprire il portone. Salgo due piccole
rampe di scale e lei è già sulla soglia della porta d’ingresso ad accogliermi
con un abbraccio. Mi riceve familiarmente nel piccolo tinello privato che in me
suscita antichi ricordi.
Ho
preso appuntamento con lei per chiederle notizie in occasione del centenario
della nascita dell’illustre marito, senatore Giuseppe Mario Raffaele Ferdinando
Militerni.
Rivedo, con una certa emozione,
la donna eroica e silenziosa che ha consentito al più noto marito di sottrarre
alla famiglia buona parte della sua breve esistenza, per dedicarla alla
comunità. Oggi ultranovantenne abita, per sua autonoma scelta, da sola. Agile,
lucidissima di mente, dotata di un eccezionale senso dell’ironia e di un’altra
virtù che, in questi tempi di crisi, si fa molto desiderare in mezzo alla
gente: l’ottimismo.
Donna Lisetta attende alle
faccende di casa in perfetta autonomia: cucina, rassetta il letto, riceve gli
amici, li accoglie con simpatia e cordialità. Proprio come una volta, quando
viveva il marito e la casa era aperta a tutti, a tutte le ore. Una donna le
rende, al mattino, soltanto i servizi più pesanti attinenti alla manutenzione
generale della casa.
Così com’è usanza quando si fa
visita a una persona anziana, le ho portato delle arance e dei mandarini,
orgoglio e vanto del mio giardino. Rimaniamo a parlare e ricordare per circa
due ore, poi le chiedo di fare delle foto nello studio di don Peppino, mio
maestro di vita e compare d’anello. Per accompagnarmi nello studio, deve
necessariamente scendere quattro gradini di antica fattura: meglio sarebbe
definirli gradoni.
-Vi
aiuto! Appoggiatevi!.. - Le dico
offrendole un braccio.
- No! No! Grazie, non voglio! Mi abituerei! - risponde con fierezza e
scende giù con movimenti rapidi, a lungo collaudati e studiati. La stessa
risposta mi rivolge quando, rientrando, istintivamente oso farle la stessa
offerta. Ci congediamo sul limitare dei gradoni mentre mi raccomanda di tornare
presto, accompagnando le parole con un gesto molto eloquente della mano.
Torno a trovarla nella settimana
successiva e mi riceve ancora nel raccoglimento del tinello, accanto a una
stufetta con un solo elemento acceso cui tende di tanto in tanto una mano. Non
avverte il freddo che in questi giorni infuria all’esterno. I muri dell’antico
edificio sono molto spessi e la casa, mi dice, è sempre calda. Mi tesse
l’elogio delle arance e dei mandarini che le ho portato la volta scorsa. Poi,
nell’atteggiamento di chi sta per dire una cosa particolarmente importante,
sillabando le parole soggiunge:
- Gino, devi piantare un “mapo”, - e mi spiega le qualità eccezionali
di questo frutto, entrato da poco a far parte dei nostri agrumeti, riferendo
con rammarico, che lei ne aveva una pianta in campagna ma è seccata.
- Donna Lise’ - rispondo - ormai che lo pianto a fare? E’ troppo tardi per me, e i miei figli
vivono a Roma! La mia giovinezza avanzata non mi consentirebbe di raccoglierne!
- Chianta ‘nu mapu!.. - insiste decisa, scandendo le
sillabe, quasi contrariata della mia pessimistica risposta. Me lo dice questa
volta in dialetto, forse perché, in una seconda lingua, io possa finalmente
comprendere. Poi, con aria solenne e nello stesso tempo serena, alzando
l’indice della mano destra verso di me :
- Devi piantarlo e… il primo
frutto, il primo, ti raccomando, lo devi portare a me!
Il suo ottimismo bonario, garbato e deciso mi lascia di
stucco: mi arrendo. Ci salutiamo dopo aver prima concordato di rivederci il
giovedì successivo. I novant’anni e passa… di donna Lisetta, vissuti con tanto
vigore di ottimismo, mi hanno messo di buon’umore!
In seguito a quel
colloquio e a quella lezione di vita, sapete che ho fatto?
Ho piantato un mapo!..
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